Masterclass in leather goods (by Eva da Silva) su Vogue Italia di Febbraio
Tagliatore, cucitore, banconista, prototipista, scarnitore. Hanno nomi antichi, eppure sono tra le mansioni più richieste nell’ambito di una classica quanto attualissima eccellenza del made in Italy: la pelletteria. Ieri considerata attività “povera”, oggi refugium occupazionale legato alla produzione di beni di lusso, simbolo di quell’artigianato artistico ancora fatto di suoni come il battere degli attrezzi da bottega, di profumi come quello del cuoio, oltre che di inventiva e tanta, tantissima dedizione. L’Alta scuola di pelletteria, in Toscana, presieduta da Karlheinz Hofer, manager Gucci, forma artigiani (202, l’anno scorso) che trovano lavoro nel giro di poche settimane, l’80 per cento a tempo indeterminato. Le stime dicono che in Asia si acquisteranno sempre più handbag, tracolle, cinture e pochette firmate dalle maison italiane, il che, nei prossimi due anni, porterà a un fabbisogno di almeno mille nuovi artigiani nella sola provincia di Firenze. Le fashion factory sono tornate a produrre nella zona – alcune, per la verità, non se ne sono mai allontanate -, dove sponsorizzano corsi sperimentali che, pubblicizzati attraverso forme di web marketing, prevedono un numero di ore raddoppiato, comprese quelle di stage in azienda. Molti dei giovani sotto i trent’anni che partecipano alle lezioni hanno alle spalle esperienze di precarietà, a volte con una laurea duramente conquistata e rimasta poi appesa al muro in una cornice: sono quindi desiderosi di cambiare vita, di apprendere un mestiere, di ricominciare da zero imparando a usare le mani. Le istituzioni assecondano questa vocazione. A Firenze, lo scorso autunno, è stato siglato un protocollo d’intesa per fornire risorse a chi vuole diventare artigiano della pelle: la prossima iniziativa, al via in marzo, consiste in un voucher per lavoratori in cassa integrazione che permette l’autofinanziamento della formazione.